Ma ne valeva davvero la pena? Me lo chiedevo seguendo l’intervista/documentario del 2008, secca e profonda, di Roberto Salinas, del 2008,”Una Storia Da Ridere. Breve biografia di Mario Monicelli”, rimandata da Sky ARTE domenica scorsa verso mezzanotte. E’ guardando lavori come questi che pensi che la tv sia meglio averla che non averla, e chi è anche solo abborracciatamente del ramo sa che sarebbe possibile fare una televione fondata sulla circolazione delle idee, ad ore accettabili, con “format”(impostazioni?) accessibili a vari segmenti di telespettatori confluenti in un’ ipotesi di opinione pubblica degna di questo nome, per la quale destra e sinistra fossero una visione del mondo e non una guerra tra bande. La Rai, ancora oggi e davvero malgrado tutto la principale azienda di comunicazione culturale del Paese, in fondo era nata per questo…
Mario, quel gran Maestro involontario, ricostruiva in poche pennellate taglienti l’affresco dell’Italia dalla guerra in poi, fino a ieri, quando ha deciso di andarsene perché poteva bastare così. Ne aveva per tutti, naturalmente, senza sconti: dall’attuale classe dirigente “cui non farei dirigere neppure un ufficio postale” a un’idea e a una pratica di italiano tante volte descritto nei suoi film. Era una persona seria, Monicelli, sufficientemente italiano per fare da cattiva coscienza implicita, non dichiarata né tantomeno urlata, a un popolo che conosceva bene. Era uno che faceva film, non parlava, e persino in questa “Storia Da Ridere” usava non letterariamente né retoricamente le parole, ma direi fisicamente, come utensili. Parlava attraverso il suo lavoro. Un uomo “del fare”, parafrasando il Letta nipote al governo…
Ma quella domanda iniziale, ne valeva davvero la pena, che c’entra con la figura e lo spessore di uno come Monicelli che oggi non c’è, o non c’è più? Vediamo. Provo a rubargli indegnamente una forma mentis, una misura delle cose. Lo faccio in un’estate che sembra la peggiore delle estati che ci siano state date da vivere, peggio di un anno fa quando ancora Monti sminuzzava le ultime briciole di pseudosobrietà, peggio di due anni fa quando un Berlusconi stremato da un priapismo intellettuale che non gli dava requie pareva alla fine e quindi dava fiato ai suoi avversari, reali o sedicenti, pronti a raccoglierne le spoglie. In un’estate in cui in vacanza non ci va nessuno, le città sono piene di un’umanità scalcinata e telefonante come extrema ratio o ultima Thule o insomma avanzi esistenziali di consumismo morente, il 53% dei giovani è precario e metà pensioni sono sotto 1000 euro al mese.
Non la butto sulla legalità, così spesso violata e invece ovviamente imprescindibile, come fa questo giornale resistenziale, legalità necessaria ma non sufficiente. E neppure sull’etica né tantomeno sulla morale, sostantivi terrosi e ormai senza radici. Mi domando dal punto di vista pratico, fattuale, se valeva la pena di una simile realpolitik all’amatriciana, questi mesi, questo governo, questa serie di nefandezze insopprimibili e “rischiose per la sopravvivenza della maggioranza”: ma guardiamoci intorno. Deserto dei tartari, una generazione e più derubata di passato/presente/futuro,nessuno in grado di parlare davvero in nome di qualche cosa, risultati economici disastrati, credibilità internazionale passata da corna e culone a kazake rapite, nessuna idea politica che regga nei soliti due campi convenzionali diserbati dalla necessità di mantenere il potere, le poltrone, le prebende. E un linguaggio che fa rabbrividire, fino all’orango di un Calderoli che dice “ampissime” al Senato riferendosi alle sue scuse e parlando peggio di un ds di una squadra ciclistica in corsa, e la donna svenduta sul banco dei femminicidi e recuperata in immagine “se la Rai non manda in onda Miss Italia”, ovvero curare sempre il sintomo e mai la malattia… Valeva la pena di tutto ciò per cotanto risultato, sperperando anche il miraggio ultimo di una politica degna di questo nome?